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STUDIO LEGALE MARAN

Sentenza di condanna al pagamento di somme: le conseguenze su quanto già versato in caso di riforma in appello.

Il caso che ci proponiamo qui di analizzare ha ad oggetto gli effetti che la riforma in appello produce sulle somme di denaro versate in esecuzione di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva. La condanna alla restituzione di quanto versato in esecuzione di una sentenza successivamente riformata, in caso di silenzio del giudice d’appello, deve cioè ritenersi implicita o meno?

A differenza di quanto può apparire da una prima lettura, il caso non è di agevole soluzione complice la presenza di due indirizzi giurisprudenziali diametralmente opposti.

Il primo orientamento, minoritario ma non isolato, sostiene l’essenza implicita della condanna alla restituzione di quegli importi ricevuti in forza della pronuncia poi riformata. Obbligo questo che sorgerebbe per il solo fatto che la sentenza di primo grado sia stata in un secondo momento riformata in appello; senza che possa aggiungere alcunché l’esserci o meno di una pronuncia esplicita in tal senso.

Risulta pertanto “ammissibile la ripetizione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello […] atteso che il diritto alla restituzione sorge direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno ex tunc e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza ” (Cassazione civile, sez.III, 13/04/2007, n. 8829).

Conseguentemente, il giudice d’appello che riformando completamente la decisione impugnata non dispone la condanna della parte vittoriosa in primo grado a restituire gli importi ricevuti in forza di quella sentenza appellata, non incorre nel vizio di omessa pronuncia (Cassazione civile, sez. II, 05/07/2006, n. 15295).

Il secondo orientamento ci propone invece una visione antitetica alla precedente. Esclusa la sufficienza della sola sentenza di riforma ci viene offerta al contempo una diversa soluzione a tale problema: qualora il giudice d’appello non dovesse pronunciarsi espressamente sul punto, la parte condannata in primo grado, per recuperare quanto versato in esecuzione della sentenza poi riformata, avrebbe due strade percorribili che rappresentano altrettante soluzioni. La prima, proporre nuova domanda restitutoria in separato giudizio, la seconda, impugnare la sentenza d’appello con ricorso in Cassazione in ragione dell’omessa pronuncia. 

Questa teoria esclude perciò che la mera riforma della sentenza di primo grado sia sufficiente a far sorgere l’obbligo di restituire quanto ricevuto in esecuzione di questa.

Le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono infatti trovare ingresso nella fase di gravame al fine di precostituire il titolo esecutivo per la restituzione, non conseguendo tale effetto alla mera sentenza di riforma (Cassazione civile, sez. III, 11/06/2008 n. 15461).

Nella stessa direzione successive pronunce della Suprema Corte per le quali la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado deve essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di appello se proposta successivamente alla esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’ impugnazione (Cassazione civile, sez. III, 08/07/2010, n.16152 e Cassazione civile, sez. III, 30/04/2009, n. 10124). Chiaro che con tali parole la Corte ha implicitamente escluso la sufficienza di una mera sentenza, individuando quale presupposto necessario la proposizione di una domanda (in senso conforme anche la sent. Cass. civ. n. 12622/2010).

Interessante quanto evidenziato dalla stessa Corte in una recente sentenza (sent. n. 9287/2012) con la quale fa propria la seconda teoria da noi richiamata: pur riconoscendo l’esistenza di una diversa corrente di pensiero (quella da noi definita minoritaria) e apprezzandone le ragioni che la sostengono (in primis le esigenze di speditezza e semplificazione nonché, più in generale, di economia processuale perseguite) si schiera contro questa offrendoci una lucida critica.

Lo stesso tenore letterale e sistematico dell’art. 474 c.p.c., primo comma, parrebbe ostativo all’ applicazione della prima teoria disponendo questo che “L’esecuzione forzata non può aver luogo che in virtù di un titolo esecutivo, per un diritto certo, liquido ed esigibile”.

Oltre a ciò, problemi di compatibilità sorgerebbero pure col disposto dell’art. 389 c.p.c., o meglio, con la precisa scelta normativa che esso contiene: la necessità che vi sia sempre un intervento del giudice tutte le volte in cui, a seguito di una pronuncia della Corte di Cassazione, debba essere ripristinata coattivamente la situazione precedentemente esistente (quando cioè venga a mancare la collaborazione della controparte).

Plausibile inoltre che riconoscere la possibilità di utilizzo della riforma della sentenza di primo grado conseguita in appello come condanna implicita produrrebbe, almeno sul piano pratico, più danni che benefici. Si permetterebbe infatti così di estrapolare un titolo esecutivo da una pronuncia che non lo contiene espressamente; questo darebbe luogo, come è intuibile, a facili contestazioni provenienti dal soccombente in appello e da terzi in ordine non tanto alla sua legittimità, o non solo almeno, ma ad ogni altro elemento di cui esso si compone non essendoci un’ espressa pronuncia del giudicante.

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